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Approfondimento: il futuro del native advertising e l’automazione

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Il native advertising è il futuro, senza dubbio. O almeno così sembrano pensarla gli esperti del settore.  Fatto sta che questo tipo di pubblicità sta prendendo piede soprattutto nel settore mobile, mentre è già il pane quotidiano di social e motori di ricerca.

Ma cos’è questo native advertising che sembra essere la panacea per ogni crisi del settore pubblicitario?

Si tratta di una forma di pubblicità che si adatta graficamente ai contenuti del sito ospite in modo da catturare l’attenzione dell’utente e aumentare clickthrough e conversioni. La tecnica è nata per constrastare la “banner blindness“, ovvero quel meccanismo di difesa per cui i visitatori di una pagina web non vedono più i banner pubblicitari a causa del sovraffollamento a cui sono abituati durante la navigazione.

Il native advertising però non è molto amato, sia perché ha la fama di essere poco trasparente, fino al limite dell’imbroglio, sia perché rischia di compromettere la credibilità dei siti editoriali. Questo perché aumenta l’ingerenza che già di per sé hanno gli inserzionisti sui contenuti e perché non esiste una separazione netta fra contenuto sponsorizzato e articolo di redazione.

I marchi invece amano il native advertising perché li fa sentire meno inserzionisti e più parte della conversazione, che è diventata la nuova metrica dell’era social. Quindi se un’azienda riesce a “far parlare di sé” attraverso contenuti sponsorizzati, l’impressione è che la popolarità guadagnata attraverso questi mezzi sia più genuina. Lo dimostra l’analisi delle metriche che vengono utilizzate per misurare i risultati di una campagna native: le più usate riguardano brand, awareness, clickthrough – non le vendite.

Le metriche di misurazione delle campagne native
Le metriche di misurazione delle campagne native

Se l’efficacia delle pubblicità nascoste nei contenuti è ancora un argomento dibattuto e non si è raggiunto un consenso univoco su ROI e vendite, resta pur sempre vero che è su questa tendenza che si stanno concentrando gli investimenti pubblicitari del campo digital, in particolare nel settore mobile che ha subito un vero e proprio “boom” di ricavi.

Lo IAB, l’Interactive Advertising Bureau, ha suddiviso le pubblicità native in sei categorie più una custom:

  1. In Feed: ossia le pubblicità inserite all’interno del feed di un aggregatore, ad esempio quelle dei social network;
  2. Risultati pagati sui motori di ricerca, come ad esempio le inserzioni di Google Adwords;
  3. I widget per le raccomandazioni, che suggeriscono articoli di siti web esterni;
  4. La promozione su directory di vendita come Amazon, Etsy o Google Shopping;
  5. Pubblicità standard con elementi nativi (popup, banner integrati nei contenuti, ecc).

Questa categorizzazione serve a fare capire quanto il panorama pubblicitario native sia complesso e sfaccettato e quante siano le possibilità di investimento nel settore, ed è forse questa una delle ragioni del successo di questo tipo di promozione rispetto alle altre.

Il futuro del native advertising? L’automazione. Una delle principali caratteristiche di questi annunci è che, essendo unici e altamente personalizzati, diventa difficile trattarli con un approccio automatico, attraverso la programmazione informatica. Nonostante ciò Sharethrough, nota piattaforma di automazione per il native advertising, ha accettato la scommessa puntando tutto sul quality score che servirà a monitorare le pubblicità in modo da escludere lo spam e a migliorare la qualità delle inserzioni.

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