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« Votami perché parlo (male) come te »: dal ‘politichese’ al ‘gentese’

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« È uno schifo, siamo stufi! »: così esordisce (o conclude) il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, nella maggior parte dei suoi discorsi. Come lui, molti altri protagonisti dello scenario politico sono soliti utilizzare un registro linguistico di basso livello, fatto di termini volgari ed espressioni scurrili. A che scopo?, ci si domanda. 

Nel suo saggio, “Volgare eloquenza”, Giuseppe Antonelli analizza i cambiamenti rintracciabili nella lingua della politica (o “politichese”) dalla prima alla terza Repubblica. L’autore sostiene che alla base ci sia un intento ben preciso: far leva sul rispecchiamento degli elettori che si ritrovano in chi parla sgrammaticato, triviale e per luoghi comuni. Così, cita Antonelli, « nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, in realtà lo si tratta come un popolo bue. » Eppure i destinatari sembrano apprezzare l’inedito “gentese” e il suo approccio lusinghiero, perché alimenta il loro narcisismo.

A chi si rivolge la comunicazione politica?

A proposito di destinatari, la comunicazione politica non si rivolge più a un preciso blocco sociale quanto al cosiddetto “italiano medio”: da qui la transizione dal politichese al sopracitato gentese, fatto di parole semplici e di concetti elementari, di parolacce, modi di dire ed espressioni dialettali. « Quel politico parla come me », deve pensare chi lo ascolta, « e io parlo come lui: dunque mi piace. »

Il passaggio dal paradigma della superiorità a quello del rispecchiamento ha portato con sé l’abbandono delle argomentazioni a favore delle emozioni. L’obiettivo è quello di « parlare alla pancia degli italiani », al loro istinto, ai loro sentimenti: il tutto attraverso la narrazione. Prendiamo una figura politica a caso, Renzi. Renzi non spiega, racconta. E racconta usando frasi brevi ed incisive, slogan d’impatto, aggettivi e giochi di parole che non richiedono un ampio background culturale. Spesso l’ex premier parla di una “rivoluzione”, che in realtà consiste nella banalizzazione della lingua e, di riflesso, della politica che comunica. Una politica che “va oltre”, al di là di ogni ideologia, e che predilige spiegare mediante una logica narrativa. 

Propaganda negativa

Un altro esempio, Beppe Grillo. I suoi discorsi sono impregnati di colloquialismi, dialetti vari, dell’uso rafforzativo di cazzo e nomignoli per riferirsi agli avversari politici. Quest’aggressività verbale ci introduce a un tema che toccherò solo trasversalmente, ed è quello della “propaganda negativa”: essa consiste nel denigrare l’avversario, azione che si riflette negativamente sull’emittente di comunicazione per quello che gli psicologi hanno chiamato “transfer of attitude recorsively”. Se parlo bene/male di qualcuno, la positività/negatività delle mie affermazioni si proietterà su di me.

Restando in tema, è bene menzionare un’altra recente scoperta degli studiosi ovvero che una discreta dose di aggressività (ben inteso nella comunicazione politica) porta gli elettori a credere che tutto sia ancora in gioco e che il loro voto sia determinante per l’esito delle elezioni. Questo li motiva a votare, cosa tutto fuorché scontata viste le alte percentuali di astensionismo, in Italia e non solo. 

Un voto ad oggi sempre più contaminato da aspetti personali e che prescindono dalla competenza del candidato. Questo a causa del crescente ruolo delle piattaforme social nell’instaurare un contatto diretto fra politico ed elettori: tale contatto favorisce il meccanismo di rispecchiamento sopracitato, ma soprattutto è reso possibile dalla “disintermediazione”.

Si tratta della graduale perdita d’importanza di quei corpi/organi chiamati a mediare la relazione fra politici e pubblico, il che ha un duplice risvolto: da un lato l’utente gode di un accesso diretto e costante alle informazioni; dall’altro il suo pensiero (tradotto in voto) è influenzato da aspetti legati alla vita privata del candidato più che alla sua credibilità. Ed è questa progressiva confidenza fra le due parti che provoca l’abbassamento del registro linguistico e l’impiego di espressioni volgari e sboccate.

È perciò evidente il circolo vizioso: il candidato influenza l’utente, l’utente influenza il candidato. Nel primo caso il risultato sta nell’accaparrarsi un voto, nel secondo sta nell’adottare un vocabolario rozzo e sgarbato. Come illustra chiaramente Antonelli, « Dal “Votami perché parlo meglio (e dunque ne so più) di te” si è passati al “Votami perché parlo (male) come te.” »

Articolo scritto da: Federica Macchetti